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Serramazzoni

CONSORZIO VALORIZZAZIONE PRODOTTI DEI BOVINI DI RAZZA BIANCA VALPADANA-MODENESE
Via Serra Vecchia, 35
Tel. 333 2759009

Attivo dal 2006, il Consorzio si propone di salvaguardare e promuovere l’allevamento della bianca modenese che ha rischiato l’estinzione a causa dell’utilizzo progressivo di razze specializzate nella produzione di latte e carne a svantaggio di quelle “tuttofare”.

LA VACCA BIANCA MODENESE

Meno di cento anni fa nei consorzi zootecnici comunali delle province di Modena, Ferrara, Mantova e Reggio Emilia erano registrati circa 52.000 capi, in continuo aumento. Negli anni '50 il numero dei capi supera quota 140.000 - è il periodo d'oro di questa razza - ma, solo dieci anni dopo, inizia la fase discendente, di pari passo con la inarrestabile espansione della razza frisona. La fortuna del Parmigiano Reggiano, infatti, convinse gli allevatori a sostituire le due razze autoctone (la modenese e la rossa reggiana) con quelle provenienti dall'Olanda, famose per la loro produttività e con le mammelle perfette per la mungitura meccanica. Oggi della modenese, che viene chiamata anche Val Padana per il legame stretto con il territorio padano, sono rimasti poche centinaia di capi: il libro genealogico, istituito nel 1957, conta non più di 240 femmine iscritte mentre il numero totale dei capi registrati presso i servizi veterinari delle Asl, si aggira intorno ai 650, con un certo margine di errore, dal momento che la reale appartenenza alla razza per questi capi non è sempre rilevata.
La bianca modenese è un animale dalla duplice attitudine che, in passato, oltre ad essere destinata alla produzione di latte e carne, costituiva anche un valido aiuto nel lavoro dei campi.
L'opinione più comune è che derivi da bovini dal mantello fromentino, simili alla rossa reggiana, incrociati a più riprese con bovini grigi di tipo podolico. I documenti testimoniano una prima consistente presenza della Bianca nella zona di Carpi, in provincia di Modena da cui, poi, si è estesa progressivamente alle zone vicine.
La bianca modenese produce un latte particolarmente adatto alla trasformazione in parmigiano reggiano e alla caseificazione in genere. Questo è dovuto al rapporto ottimale fra tenore di grasso e proteine, e dove la frazione k delle caseine, che favorisce una coagulazione rapida e più resistente del latte, è presente in quantità elevate. Questa razza, inoltre, ha mantenuto un patrimonio genetico che consente discreti tempi di accrescimento e buona resa al macello. Le sue carni sono sapide e ben marezzate di grasso, adatte a cotture veloci.

L'ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA

L’aceto balsamico tradizionale di Modena è il risultato di un complesso procedimento artigianale, che parte dalle uve autoctone, passa per la cottura dei mosti e si svolge per lunghi anni attraverso travasi annuali fra le botticelle delle acetaie. La trasformazione dei mosti può avvenire solo nelle condizioni ambientali e climatiche tipiche dei sottotetti delle vecchie abitazioni e soltanto in un territorio limitato, caratterizzato da inverni rigidi ed estati calde e ventilate. Proprio perché non può essere ottenuto con lavorazioni industriali o su larga scala, la produzione dell’aceto balsamico tradizionale è limitata e costosa.
Il mosto di uve di vitigni locali (trebbiano di Spagna, lambrusco, spergola e berzemino) viene cotto in caldaie a cielo aperto fino a ridurne il volume della metà. Dopo un lungo periodo di decantazione, inizia una naturale e contemporanea reazione di fermentazione e biossidazione acetica a opera di lieviti e acetobatteri. Il prodotto subisce poi una fase di maturazione nell’acetaia che è di fondamentale importanza per la formazione dei tipici profumi.
L’acetaia è costituita da una batteria di botti (dette vaselli) di legni diversi e dimensioni decrescenti sistemate in linea. Ogni legno cede all’aceto una particolare caratteristica: il castagno ricco di tannini contribuisce al colore scuro, il ginepro cede le essenze resinose, il ciliegio addolcisce il sapore mentre il rovere, legno prezioso per l’aceto già maturo, conferisce il tipico profumo vanigliato. Il contenuto di ciascuna botte è travasato dalla più grande alla più piccola, da cui si spilla ogni anno una piccola quantità di aceto per valutarne le qualità organolettiche e la maturità. Le stagioni del balsamico sono due: la calda, quando avvengono le trasformazioni microbiologiche e la concentrazione per evaporazione dell’acqua, e la fredda, che favorisce il riposo e la decantazione elevando la limpidezza del prodotto. Il travaso si ripete ogni anno al termine dell’inverno, quando l’aceto risplende di massima limpidezza. L’ultima fase è quella di imbottigliamento, che avviene dopo 12 anni per l’affinato e dopo 25 per l’extravecchio.
Esistono tanti balsamici quanti sono i loro produttori: del tutto personale è infatti il modo di cuocere il mosto, di ridurlo a fuoco diretto e di operare rabbocchi, travasi e prelievi, come diverse sono le condizioni ambientali dell’acetaia e la selezione dei microrganismi si produce nel tempo.
Alla vista l’aceto balsamico tradizionale si presenta di colore bruno scuro con un aroma complesso e molto persistente, il sapore è dolce e agro, ricco di sfumature.

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